Il Codice Penale, al capo IV del titolo XI, disciplina i delitti contro l’assistenza familiare, reati commessi appunto all’interno del nucleo familiare.
Nello specifico, all’art. 572 si configura il reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi, imputabile a chiunque maltratti “una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza e custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”.
La Cassazione è stata chiamata in diverse occasioni a dirimere la questione su cosa si intenda a riguardo, e tutte le pronunce sono state concordi nell’affermare che il reato è da considerarsi tale, ai sensi dell’art. 572 anche in caso di convivenze breve.
In esame, il caso di un uomo, che aveva impugnato la sentenza in cui veniva condannato per aver commesso il reato di maltrattamenti in famiglia, nei confronti di una donna con cui conviveva da dieci mesi. L’uomo sosteneva che non potesse configurarsi il reato in oggetto perché tra lui e la donna mancava un comune progetto di vita, ma la Corte ha respinto il ricorso, in virtù del fatto che l’art. 572 c.p. è applicabile “non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza, assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale. Ragione per cui, il delitto è configurabile anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita, basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza” (Cassazione, n. 19922 del 9 maggio 2019).
In tale pronuncia, la Corte ha esplicato anche che “in tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di inferiorità psicologica della vittima, non deve necessariamente tradursi in una situazione di suo completo abbattimento, potendo consistere anche in un avvilimento generale conseguente alle vessazioni patite, senza che sporadiche reazioni vitali ed aggressive da parte della stessa possano escluderne lo stato di soggezione, a fronte di soprusi abituali”.
La stessa ratio era stata applicata nel caso di una convivenza durata solo 29 giorni: nonostante la brevità del periodo trascorso insieme, secondo i giudici, il fatto che la coppia avesse rilasciato all’anagrafe del Comune della nuova residenza, dichiarazione ex. art. 1 comma 37, l. 76/2016 sulla convivenza di fatto, era da ritenersi prova sufficiente, quale indicatore di progettualità di una vita comune (Cassazione n. 56673 del 17 dicembre 2018).
Non viene meno l’abitualità, se si verificano pause tra i maltrattamenti: per la Cassazione il reato si configura anche con “il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria, che determinano sofferenze fisiche o psichiche, atti realizzati in momenti diversi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche in un limitato contesto temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo. E’ del tutto irrilevante, quindi, nell’accertata esistenza di plurimi episodi di prevaricazione nel corso di una relazione sentimentale protrattasi per anni, che la persona offesa avesse una sua vita di relazione autonoma o potesse disporre o meno di risorse economiche: circostanze, entrambe, perfettamente compatibili con un più generale clima di umiliante sopraffazione, che è necessario e sufficiente per configurare il reato” (Cassazione, n. 19776 del 18 maggio 2019).
Il reato di maltrattamenti in famiglia si può configurare anche se la convivenza non è più in corso (Cassazione, n. 6506 dell’11 febbraio 2019). Tuttavia la convivenza, presente o passata, è indispensabile per l’applicabilità dell’art. 572 c.p., o quantomeno, per sopperire alla sua assenza, si deve dimostrare la volontà del progetto comune.
Un caso diverso invece, è quello di una coppia, dal cui legame è nata anche una figlia, e nonostante disagi e soprusi da parte di un genitore nei confronti dell’altro, non è stato applicato il reato di maltrattamenti “in famiglia” perché l’uomo e la donna non hanno mai vissuto insieme. Non è sufficiente infatti, la protratta durata di un rapporto, né la nascita di una figlia ad imprimere ad una relazione sentimentale fra soggetti non conviventi, la connotazione di unione improntata alle caratteristiche proprie di un legame familiare e di conseguenza non è nemmeno possibile l’applicabilità dell’articolo 572 del codice penale. (Cassazione, n. 345 del 7 gennaio 2019)